L’Ordine dei Mercedari fu fondato in Spagna da s. Pietro Nolasco (1180-1245), con lo scopo principale della ‘redenzione’ dei cristiani fatti schiavi dai Mori arabi e portati nei Paesi musulmani dell’Africa Settentrionale.
Passata l’epoca della dominazione araba, l’Ordine continuò la sua opera apostolica e di evangelizzazione, diffondendosi in tutte le realtà nazionali d’Europa, ma anche in America (con Cristoforo Colombo c’erano anche alcuni Mercedari come cappellani); ormai la ‘redenzione’ era intesa soprattutto come liberazione dal peccato delle anime traviate.
Per quanto riguarda l’Italia, il primo convento fu fondato a Cagliari in Sardegna, a quel tempo soggetta al dominio aragonese e fu proprio re Alfonso IV d’Aragona nel 1335, a farne dono all’Ordine.
Poi nel 1442 seguì Napoli e nel 1463 Palermo e man mano seguirono fondazioni in altre città d’Italia, fra cui nel 1569 quella di S. Rufina a Roma, seguita dal convento di S. Adriano. Nell’Ottocento, le nuove correnti di pensiero che invasero il mondo dopo la Rivoluzione Francese, ebbero un influsso nefasto sulla Chiesa e sulla vita degli Ordini Religiosi, che subirono le leggi soppressive delle organizzazioni religiose.
Anche l’Ordine della Mercede, arrivò al quasi totale annientamento della sua presenza nel Vecchio Continente e la scomparsa completa in Francia.
Nel 1880 solo tre Case erano sopravvissute in Europa, S. Adriano in Roma, Nostra Signora di Bonaria in Cagliari e Nostra Signora dell’Oliver in Spagna, con in tutto una trentina di religiosi. Nel mondo erano rimasti circa 300 Mercedari, di cui la maggior parte anziani e malati. Il nuovo Maestro Generale, il cileno fra’ Pietro Armengaudo Valenzuela, pose la sua sede a Roma e governò l’Ordine per 31 anni; si dedicò completamente alla restaurazione dell’antico
Ordine, favorendo soprattutto la formazione di nuove vocazioni; la sua benefica opera quando lasciò la carica nel 1911, portò alla costituzione di cinque province in Europa e sette in America Latina, con un totale di 60 Case e 450 religiosi.
E in questo quadro di rinascita dei Mercedari, si inserisce la breve ma intensa vicenda di fra’ Antonino Pisano, novizio dello storico convento di Nostra Signora di Bonaria di Cagliari. Antonino Pisano, figlio di Stefano Pisano e di Raffaella Monni, nacque a Cagliari il 19 marzo 1907 e fin da piccolo dimostrò una grande devozione alla Madonna, venerata nel famoso Santuario di Bonaria; inoltre per la devozione verso il Ss. Sacramento fece parte del circolo ‘San Luigi'.
A 13 anni entrò come aspirante alla vita religiosa, nel convento mercedario di Bonaria il 23 ottobre 1920; a causa di una forte miopia fu costretto però ad uscirne, ma tenace e perseverante appena migliorò in salute volle rientrarvi, iniziando il noviziato il 5 marzo 1922.
Emise i voti semplici l’8 dicembre 1923; si applicò con grande serietà ed impegno agli studi per sacerdote, ma anche nella perfetta osservanza della Regola dell’Ordine.
Dando prova di vero amore a Dio e al prossimo, a 19 anni seguendo l’esempio di santa Teresa del Bambino Gesù, fece l’offerta eroica della sua giovane vita al Signore, per la riparazione delle offese arrecate con i peccati, per la conversione degli infedeli, degli eretici e dei peccatori. E il Signore accettò questa offerta di fra’ Antonino Pisano e nel mese di maggio del 1926 cominciò la sua Via Crucis con il manifestarsi di un male polmonare, da lui accettato con
ammirabile serenità, che con alterni alti e bassi, lo condusse alla morte avvenuta a 20 anni, il 6 agosto 1927 a Cagliari.
È sepolto nel Santuario di Nostra Signora di Bonaria; dopo la sua morte molte persone assicurarono di aver ricevuto grazie per l’intercessione di fra’ Antonino Pisano e nel 1945 ebbe inizio il processo diocesano per la sua beatificazione, conclusasi il 10 novembre 1957.
La causa prosegue a Roma presso la competente Congregazione.
Autore: Antonio Borrelli
IL FUOCO NELL'ANIMA
L'Amore di Antonino Pisano
Cagliari, maggio 1926
«…Ti offro la mia vita…».
I suoi occhi scuri si illuminarono di una luce che proveniva dalla parte più profonda della sua anima. Una lacrima scivolò sulla guancia leggermente pallida e la solcò, giungendo a lambire come rugiada le labbra sottili.
Si spostò davanti alla finestra: la luce del sole lo estasiò. Accadeva così ogni giorno, ogni mattina, quando l'alba indorava quel limite infinito che è l'orizzonte, e ogni sera, mentre il sole, inabissandosi, tingeva di un colore sanguigno proprio quel limite, che infine diveniva oscuro. Si stupiva ogni volta del sorgere del sole, dello scendere della pioggia, dell'ululare del vento, del sorriso dei bambini che vedeva giocare lì fuori… Aveva scelto lui di guardare ogni giorno il mondo con uno sguardo nuovo, semplice, puro, innamorato della vita… e poi c'era quel Fuoco. Il suo Fuoco. Un qualcosa di immenso che lo divorava da dentro. Ma non era un fuoco distruttore, quello che lo consumava, bensì un fuoco che gli lasciava una certa dolcezza e che lo rendeva pronto e disposto a essere amico di tutti, a perdonare tutto, ad amare ciascuno… Era quel fuoco che gli mostrava l'Arcobaleno. L'Arcobaleno iridato che compone la persona umana, l'arcobaleno brillante, splendente di miriadi di colori… Antonino aveva scelto un colore, di quell'arcobaleno: il rosso. Il rosso che apparteneva al Fuoco. Il suo Fuoco. Il suo Amore. Con l'Amore, egli anelava la Bellezza. La Bellezza pura, vera, eterna. Sperava che un giorno l'avrebbe raggiunta: era l'unico suo desiderio.
Quei lunghi periodi di malattia lo avevano lasciato stremato: ancora soffriva di un problema ai polmoni che rendeva una sofferenza persino il respirare. Ma non si lamentava, Fra Antonino, anzi si inebriava di gioia e novità. La novità manda avanti il mondo: la novità della vita, la semplicità della sua epifania, la dolcezza della sua scoperta quotidiana. I suoi erano pensieri di bambino: perché chi non si stupisce delle cose semplici non ha speranza. Non hanno speranza coloro che ormai sono assorbiti dalla logica degli «adulti», coloro che hanno perso la capacità di comprendere il sorriso della vita che si disvela a poco a poco lungo gli anni, coloro che non si chiedono più se sia giusto che quel che accade accada, coloro che, svegliandosi ogni mattina, non sono consapevoli della loro fragilità, coloro che temono la morte e non capiscono che il loro limite è la loro forza, coloro che muoiono a poco a poco per un'infiltrazione progressiva di quello che l'uomo comune definisce «buon senso» e che in realtà è, il più delle volte, la scelta più facile… E invece è bello rischiare: è bello sorridere di rimando a una morte che appare sfumata, in lontananza, ai limiti della vita, e che costituisce la forza dell'uomo. È bello prestare fede a ciò che appare più incredibile per arrivare a comprendere che è la vita, e non la morte, che la ha vinta, che è l'amore, e non il dolore, che regola la vita, che è l'uomo, e non la logica spietata di «automi», che dà senso all'amore… ma è bello anche scoprire che spesso è dal dolore che nascono i fiori più belli. Questo Antonino lo aveva capito. E, con l'innocenza di un bambino, prestava ascolto ogni giorno alla voce dell'usignolo sul ramo dell'albero di fronte alla finestra della sua cella: l'uccellino gli rivelava i misteri del mondo.
Si rendeva conto di quanto delicata potesse essere la sua esistenza, quanto facilmente avrebbe potuto smettere di respirare da un istante all'altro per ritrovarsi all'improvviso avvolto dalla Luce e per divenire, infine, Luce lui stesso, partecipare dell'infinità di quell'amore… Un amore che era fuoco che ardeva in lui, bruciandolo dall'interno. Sentiva che questo amore doveva essere donato, altrimenti alla fine l'avrebbe soffocato… E il suo fuoco, il suo amore, era la sua forza, la sola ragione che ancora permetteva la sua esistenza, la sola cosa che ancora gli consentiva di continuare a occupare un posto nella vita terrena, così dura e difficile, ma altrettanto bella e gentile, sottile e delicata, estasiante e tormentata…
Cagliari, 1920
«No, vi prego… voglio rientrare… Voglio tornare…».
Il ragazzo era debole, anzi debolissimo.
I medici che lo assistevano erano chini sul suo lettuccio e scuotevano la testa in una maniera quasi sconsolata.
«L'abitudine… è questo… questo, che uccide…» continuava a ripetere Antonino, pallido come la neve.
«Delira» sussurrò un medico al suo collega. Entrambi non sapevano far altro che osservarlo e bisbigliarsi qualcosa all'orecchio.
La febbre. Il fuoco. La vampa. Il calore. Intanto Antonino si sentiva bruciare. Ma non tanto dalla febbre, quanto da quel qualcosa che, indipendentemente dalla malattia, aveva causato realmente la febbre. Parlava, perché udiva una voce dolcissima parlargli; rispondeva, perché udiva questa voce soave porgli delle domande…
«È l'abitudine… il male… del mondo… il lasciarsi…morire».
E ancora i medici, che non sanno curare i corpi, né tantomeno le anime, non comprendevano il tormento che aveva invaso il loro giovane paziente…
Cagliari, marzo 1922
"Se io ti prego, ora, è perché ardo… brucio… desidero… il tuo Amore. Consentimi di ottenere almeno una minima scintilla di quel tuo immenso Fuoco… e allora sarai in me. Ed io sarò in Te…".
Antonino si trovava inginocchiato dinanzi all'altare. Alzò lo sguardo in direzione di quel crocefisso ligneo appeso lì, tanto in alto, lontano, lontano da lui…
Cagliari, maggio 1926
…Sapeva che la sua sofferenza aveva un senso. Come ogni dolore ha un senso.
Amava definire la sua infermità «la mia piccola Croce». Si sentiva onorato che quella minuscola sofferenza potesse essere offerta gradita all'unico Amore della sua vita. L'Amore che, d'altronde, lo faceva ardere.
A quell'Amore si sarebbe offerto in sacrificio per chiedere il perdono per quella gente sperduta… quella gente che si dibatte ogni giorno nel fango di un'immane tragedia e che della vita riesce a filtrare soltanto la commedia, non il lato sublime… che considera l'Essere una banalità… che ormai non si stupisce più di nulla, ma che continua a divincolarsi in quella sorta di melma che attanaglia sempre di più… Antonino si sarebbe offerto perché amava quella gente. Amava tutti loro. Disperatamente. Immensamente. Disperatamente, come disperatamente si avvinghiava alle radici tanto fragili della sua stessa vita.
Immensamente, come quel Fuoco che ormai era l'unico padrone del suo animo, del suo respiro, di ogni suo gesto, sentimento, pensiero, parola… Era felice, pur affranto dalla malattia. Si sentiva forte, eppure era così straordinariamente debole. Amava la vita, ma anche la morte. In fondo, entrambe non sono altro che le due facce di una stessa moneta che nessuno può spendere, coniare o scambiare… una moneta stupefacente, che si agita sull'orlo dell'uomo, sul bordo della sua ragione, al limite della follia… Una Follia che Antonino aveva già assaporato e che gli era parsa tanto amena da non volersene più separare. Una Follia che l'uomo che è stato vinto dalla banalità e dalla noia del mondo - e che invece di leggere nel mondo i colori e la cangiante e sempre nuova bellezza - scambia per qualcosa da evitare e talvolta persino da biasimare. Perché egli ormai è affezionato al suo «buon senso», di cui non esiste nulla di più volgare.
Antonino giocava sul limite dell'orizzonte dei suoi anni, come un equilibrista si diverta a stare su una corda sottile, ma altrettanto robusta. Avrebbe voluto compiere qualcosa di davvero «grande», qualcosa di degno di essere ricordato, qualcosa che riuscisse a colmare il vuoto che percepiva dentro di sé affiancato al suo fuoco, il vuoto che talvolta la notte lo teneva sveglio a pensare, perché gridava di voler raggiungere il cielo… Ma era rimasto bambino. Bambino, nelle filastrocche della sua terra che ogni tanto gli tornavano in mente e che ripeteva come dolci nenie tra sé e sé… piccole poesie, talvolta così antiche da perdersi nei ricordi delle nebbie di quella terra…
Laudau semper sia
su nomen de Jesus e de Maria
Laudau plus e plus
su nomen de Maria e de Jesus
…nella lingua romanza degli avi, appresa e mai dimenticata…
Ma, in fondo, la cosa fondamentale della vita è il rimanere bambino. È la dolcezza che tutto questo implica. È come svegliarsi d'un tratto e allontanarsi dalla prosa della vita e scegliere di morire per la poesia di questa… perché per la prosa muoiono tutti. Per la poesia è un onore immenso. La Poesia si aggirava sottile tra le pagine della vita di Antonino. La Poesia esisteva anche nella vita di quell'uomo che, per primo, donò tutti i suoi beni per ottenere un bene ancor maggiore, un bene supremo: la Libertà…
Cagliari, 6 agosto 1927
Il silenzio della stanza incombeva ed era interrotto soltanto da singhiozzi provenienti da un angolo, semisepolto dalla penombra, e da un luogo, quasi completamente tenebroso, verso il centro... Sulla finestra, di solito sempre aperta e indorata dalla luce gioiosa del sole, era stata fatta scorrere una tenda abbastanza spessa, in maniera tale che non era possibile scorgere nulla di ciò che accadeva all'esterno.
All'angolo della stanza, un frate biancovestito stava ritto in piedi, il capo chino, il petto che si agitava in convulsi sobbalzi. Sul volto, un paio di occhi scuri apparivano indicibilmente arrossati per il pianto. Vicino al lettuccio, stava una figura di donna. Ella aveva i capelli arruffati, ma non se ne curava, presa com'era dallo stringere la pallida mano a suo figlio, temendo in un certo qual modo che potesse sfuggirle all'improvviso… e a quel punto avrebbe cercato di trattenerlo con tutte le forze che possedeva.
Il caldo era asfissiante.
Rivoli di sudore colavano lungo la fronte della madre e si insinuavano tra le palpebre gonfie di pianto, andando a mescolarsi in un tiepido abbraccio alle lacrime salate come acqua di mare. Sul lettuccio era adagiato Antonino, febbricitante.
I suoi occhi chiusi tremolavano di quando in quando come la luce incerta di una candela. Era immoto. Sembrava quasi che non respirasse. Per questo la madre aveva smesso quasi di respirare, per ascoltare i respiri di suo figlio malato. Per questo cercava di non singhiozzare, per prestare orecchio ai battiti troppo tranquilli di quel cuore malconcio per l'Amore e per la malattia…
Il frate - il più grande amico di Antonino - se ne stava in piedi, mormorando sommessamente una preghiera alla Signora tanto venerata da Antonino. Nella speranza che l'ascoltasse. Ma i piani della Signora erano altri…
Antonino non era sudato, seppur riarso dalla febbre. Candido come la neve, le sue labbra erano screpolate e tendevano anch'esse al colore del latte.
Un fremito di vento scosse leggermente la tenda. Fu in quel momento che il giovane aprì gli occhi. «Ma… Mamma…» riuscì a sillabare. Un sorriso gli increspò il volto affaticato. La madre strinse a sé la sua mano e la portò alle labbra, baciandola e contemporaneamente bagnandola della rugiada del cuore che ora trovava finalmente libero sfogo. Il suo amico si illuminò di speranza e smise di pregare per fare attenzione a ogni singolo alito di voce. «…non… non piangere, mamma…». La donna dovette compiere uno sforzo sovrumano e abbozzò un timido sorriso. Antonino alzò lo sguardo verso l'amico, oltre le spalle di sua madre. «…anche tu …anche tu sei… qui… per me… sono felice…». Al sentirlo parlare, il frate non resistette e corse a inginocchiarsi accanto alla madre, alla sponda del letto. Il debole ragazzo sollevò la testa in un tentativo faticoso ma tenace. «Non sforzarti, angelo mio…» gli disse sua madre.
Il volto pallido si corrugò in maniera interrogativa. «Perché… perché… la finestra… è… è chiusa…? Perché c'è… la tenda… non vedo… non vedo la luce…». L'amico si affrettò a scostare la tenda. La luce filtrò copiosa. Un allegro canto di uccello inondò la stanzina. Antonino si fece raggiante in viso. «Oh… la luce… la mia luce… com'è bella… è sempre così… così… luminosa… bella… la luce…» bisbigliò confusamente.
Ora un sorriso gli aleggiava sul volto, e il corpo si protendeva nel desiderio di raggiungere la finestra. «…Francesco… Francesco, aiutami…» ordinò olcemente all'amico. Il frate, incerto sul da farsi, guardò la madre di Antonino per cercare consiglio. Ella, conoscendo la ferma gentilezza di suo figlio, acconsentì con un cenno del capo.
Sollevando le pesanti coperte, Francesco sorresse con forza Antonino e lo accompagnò verso la finestra. La madre li seguiva passo passo. L'andatura del ragazzo era barcollante, insicura, eppure… vi si poteva scorgere una certa determinazione a giungere davanti alla finestra. Fino alla finestra. Poi, tutto sarebbe finito. Ma che importava? Ciò che contava era la luce.
Gli ultimi passi… poco più oltre il limite della finestra si sviluppava in tutta la sua maestosa beltà l'albero. E, su un suo ramo, se ne stava appollaiato l'usignolo di Antonino.
«Canta… per me, piccolo… Mi rendi la gioia… più grande… il mondo… come… come è bello… finalmente… ho visto la Bellezza… finalmente… sono… in bilico tra… me e il mio Fuoco…».
Sua madre e Francesco ascoltavano le sue parole senza capire.
«…tutto questo lo…lo devo a Te… grazie… della vita… grazie della… semplicità… della Bellezza… del… del Fuo… co… Fuoco… del… Vuoto… grazie della novità… grazie di tutto… grazie… per sempre…».
Ora, Antonino sembrava pervaso da una gioia sovrumana. Il suo bel viso sembrava partecipare della Luce che gli proveniva da dentro, ancor più splendida di quella del sole… Un sorriso lo adornava in maniera sublime.
«…grazie… della semplicità…».
Si interruppe un istante, come per cercare la forza necessaria per restare in piedi da solo.
«…eccomi, sono Tuo… Adesso posso… tornare a casa».
E felicità e pianto si mescolarono in lui, condensandosi in un ultimo sguardo, mentre si appoggiava esanime alla spalla di Francesco…Questi e la donna rimasero in silenzio, mentre copiose lacrime scorrevano nel loro intimo…
…Antonino ascoltava l'usignolo cantare, mentre si confondeva con la Luce pura. Lo ascoltava, e amava la Dolcezza, la Bellezza e la Semplicità…Lo ascoltava con un sorriso che gli apriva gli sconfinati spazi del cielo mentre canticchiava:
Laudau semper sia
su nomen de Jesus e de Maria
Laudau plus e plus
su nomen de Maria e de Jesus… |